v e n t r e (poesie)

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Prefazione   
Massimo Barile
  

 
  

 

 

Vi sono esperienze che, una volta approfondite, possono isolare o persino annientare. Gettarsi in questo scandaglio significa non aver paura di perdere, non temere il rivelarsi di una verità. Averne coscienza significa dividere la propria esperienza dalla nullità d’un vivere vacuo.
Stefania Ricci realizza le sue potenzialità con un accanimento che viviseziona la molteplicità delle forme e dei contenuti del suo “poetico” desiderio frenetico.
Il ritmo della vita scandisce i tempi precisi d’una scrittura estatica e Lei accentua le parole, le ammanta d’un potere taumaturgico, offre nuovi significati, apre le porte del tempo a spazi inesplorati: assume il ruolo di una ricercatrice che indaga la vita attraverso un camaleontico percorso, come mappa esistenziale la “parola magica”.
Le risposte a domande contraddittorie diramano in tutte le direzioni: i ritagli di immagini, gli attimi di vita vissuta, il vuoto e le lacerazioni, l’inevitabile “cedere al piacere di questa vita” diventano simboliche rivelazioni.
La traccia del racconto vive un equilibrio tra cielo e strada, volo fantasioso e faticoso cammino terreno, luce e tenebra: un rapimento mistico “senza ricordo”, dispersa in “labirinti caldi/ umidi” a sorseggiare, ridendo, la “vanità di tutti i viaggi”, l’indifferenza per le aspettative tradite mentre “l’urlo/ significante” invade l’aria e conduce alla sentenza “toccami nel profondo / e guarirò / in una morte dolcissima”.
Ecco la lenta precipitazione nel tempo, l’abissale caduta, tra perdite e ricordi, nell’unico tentativo di mettersi in ascolto di una “perfetta armonia” che leghi il corpo e l’anima.
La poesia custodisce un “pezzo d’universo”, ogni istante della vita insegna a capire che “siamo polvere”, cocciutamente impegnata a estrarre illusorie verità dall’impenetrabile.
Stefania Ricci utilizzando le sue alchimie propone un “solco da tracciare”, per inserirvi qualcosa da ottenere o da perdere, un “piacere da provare”, un “segreto da scoprire”, una “via da scegliere”, una “parola da scrivere”, un “vuoto da colmare”.
Come un felino che lascia impronte lievi sulla carta, come una donna che lascia il suo profumo dopo un fulmineo passaggio, come una dea che “emerge nuda dal caos”, indica il limite da varcare: vincere o perdere non conta nulla, “ogni cometa ha un solo istante”, le occasioni si possono cogliere o perdere, i sogni possono infrangersi, le brucianti parole spegnersi in un attimo, le contrazioni del ventre farsi laceranti: ci si può ritrovare seduti ad assistere al “liquefarsi dello spirito nel tempo”, a meditare sui “brandelli di essenza” come fa Lei stessa quando si muove tra parole “oscillanti” e possibili esperimenti per catturare le “vibrazioni”.
La sua parola, fiesca e sanguinante, contagiata dalla sua originale linea letteraria, gustosa dolce piccante, riconduce al “piacere freddo”, tra impeto e tormento: e scrive “oltre la superficie opaca del limite / il bagliore del salto”, osservando il ventre pulsante, vivendo quell’oscillazione sublime, desiderando la negazione dei luoghi comuni, resettando le connessioni e le intenzioni.
Scrivere è meglio che leggere”, e giudicare è meglio “che essere giudicati”.
Le crepe della vita sono nascoste da una superficie “lucida” e l’attenzione é sempre rivolta a captare il filo delle emozioni: “Ho visto brulicare/ su pagine di velluto / tra foglie imbevute di nettare d’uva / e di grano / qualcosa che assomigliava alla coscienza / qualcosa che non posso dimenticare/ qualcosa di sacro”.
E Lei, nata in una notte di maggio, sempre pronta a nutrire la mente, a “immaginare il sole”, volteggiando in questa vita con la paura di sentirsi sola, vive intensamente la consapevolezza della fragilità e delle debolezze che accompagnano nel cammino: è possibile che il destino possa riservare la “gloria” ma, in realtà, v’è solo l’evidenza che “l’esistenza è un atto di volontà”.
Le sottili insinuazioni nell’esistenza. “chiusa in percorsi obbligati”, spingono verso il caos, il dolore e la dimenticanza, e poi l’inevitabile sfida all’enigma.
La sua pervicacia nelle ripetizioni, una galvanizzazione delle parole chiave che, quasi con un automatismo mentale, ritornano nelle composizioni più sentite: “gocciolando/sgocciolature l gocciolano insulsi sogni l gocciola dolore I goccia a goccia” e poi “sapore liquido dolce piccante l umori liquidi di piacere” e infine “l’uomo materia barcollante nel vuoto/ essere di fango”.
In alcuni passaggi le parole sono decisamente crude e nella poesia di Stefania Ricci la crudezza ha un significato profondo, nettamente voluto, ricercato, esibito con piena coscienza, mai superficiale, mai casuale: sangue nero/ ossa corrose / carne macellata / fossa di fango / sangue sciolto nell’umore / ceneri nel cuore solo per citare alcuni esempi.
Ecco allora che le parole fluttuano nella mente, incidono il corpo che sente il dolore, qualcosa d’indefinito divora gli occhi, la pelle è bruciata in una continua frantumazione che si svolge a più livelli, il confondersi dell’idea con il caos, il piacere reale e i sogni oltre i confini, oltre i suoni che si infiltrano nelle più “profonde nascoste silenziose buie infinite stanze dello spirito”: una “pura essenza melodica”, un godimento “estatico” e i recuperi dall’antro della memoria.
“Siamo ciò che ci piace”, sic et simpliciter, come a dondolare nelle infinite possibilità, al ritmo lento di un tempo che facciamo nostro: l’ordinata vita può esplodere nel caos, la quotidiana elaborazione del ricordo deve chiedere la “ragione del pianto”. Senza chinare la testa. Mai.